L'italia può davvero considerarsi la culla del diritto ?

L’Italia può davvero considerarsi la culla

del diritto ?

 

Francesco Mele          Raffale Stajano Conferenza del 21 novembre 2019

 

  1. Diritto termine polisenso. La presente sommaria riflessione si rivolge allo stato della giurisdizione civile in Italia ed alla sua attitudine a supportare le istanze di ordinario svolgimento dei rapporti socio economici, in modo accettabilmente competitivo rispetto ad altri ordinamenti statali

 

Con il termine diritto generalmente si intende sia il complesso di norme imposte con provvedimenti espressi o vigenti per consuetudine, sulle quali si fondano i rapporti tra i membri di una comunità o si definiscono quelli tra comunità estranee, sia la posizione giuridica soggettiva tutelata che il soggetto è facoltizzato ad assumere a difesa dei propri interessi, sia l’applicazione della norma giuridica che il giudice sancisce a seguito della valutazione di una fattispecie svolta nel corso dell'istruttoria e del processo.

Quest’ultimo angolo di inquadramento - e in particolare quello riguardante la giurisdizione civile - costituisce il tema della nostra riflessione. L’estensione all’ambito penale finirebbe con il banalizzare l’analisi, atteso che la situazione della giustizia penale, stante la specificità dei problemi e le gravi patologie che ne scandiscono il funzionamento, merita un’autonoma occasione di approfondimento.

L’interrogativo di fondo è se le prestazioni assicurate dalla giustizia italiana possano considerarsi competitive rispetto a quelle assicurate sul versante internazionale.

Sul punto il giudizio della Commissione europea (Commission européenne pour l’efficacité de la justice – CEPEDEJ) è quanto mai negativo. La lentezza della giustizia civile italiana è questione nota e, benché negli ultimi anni siano stati fatti passi avanti (soprattutto in termini di riduzione del numero di casi pendenti e in parte anche in termini di durata), la situazione risulta ancora critica rispetto ad altri paesi. In Italia, un procedimento civile che arriva al terzo grado di giudizio dura in media più di 8 anni.

 

  1. Funzione e finalità del corpus normativo, sistema che si presenta strutturalmente complesso ma che riflette virtù e limiti del sostrato socio politico che lo

 

  • E’ opinione radicata che il diritto sia materia confusa e complessa, spesso così strutturata proprio per rendere difficile la vita dei cittadini ed impervia l’attività degli operatori economici. Si tratta di un’opinione fondata sulla frammentarietà e prolissità della materia, spesso segnata da un linguaggio esoterico, che rende impervia la comprensione dei testi normativi ai non addetti ai

Questa cattiva reputazione, originata da patologie e devianze obiettive, non può intaccare la fondamentale valenza del diritto nel vivere civile. L'uomo nasce e muore in una società in cui esiste la legge. Questa scandice ogni momento delle relazioni individuali, economiche sociali e  stimola ed indirizza l'intero ciclo di sviluppo individuale (V. Knapp, V.: Teoria della legge. CH Beck, Praga 1995,p. 13).

2.2.  E’ il diritto che rende la persona un "cittadino" e che, quindi, scandisce e struttura il perimetro dei diritti e delle libertà della persona.  Il diritto è intrinsecamente legato al vivere dell’uomo nella dimensione sociale, esso è un po’ come l’aria di cui non ci si accorge, se non quando manca. Il sistema giuridico metabolizza sia precetti della morale, sia la visione della società delle classi dominanti, senza peraltro rappresentare la meccanica risultante della somma di questi input; esso definisce, attraverso la regolamentazione adottata, un modello di società e di relazioni tra i partecipanti alla res pubblica.

E’ attraverso il sistema delle leggi che prende forma l’Ordinamento giuridico, il quale esprime, in forma ordinata e sistematica, il modello di società che il soggetto regolatore, dotato del potere di legiferare, intende realizzare. Va da sé tale «entità» assume, a seconda dei tempi, forme diverse: in stati monocratici, autoritari o di classe, il modello di Società perseguito attraverso il sistema giuridico sarà prevalente espressione della classe dominante o dei soggetti egemoni; nello stato pluriclasse e democratico, invece, il diritto dovrebbe poter costituire la risultante - mediata e decantata da passioni/sollecitazioni epidermiche - del sostrato etico, economico  e  socio  culturale  della Comunità.

In altri termini il diritto è l’espressione più diretta e completa della coltura , delle sensibilità e degli obiettivi di un popolo.

 

3.   L’Ordinamento giuridico è strumento del vivere sociale attraverso il quale una somma di individui viene trasformata in una Comunità, legata da un comune destino

Il sistema delle leggi non può dunque esser ridotto - secondo la chiave interpretativa del materialismo storico - a mera «sovrastruttura», meccanica trasposizione dei rapporti di produzione tra le forze produttive. Esso si presenta come un sistema complesso, modellato dal corpo sociale ed espressione dell’anelito umano a superare la casualità degli eventi e la prevaricazione dei più forti, attribuendo ai diversi soggetti compiti, doveri e diritti che sono il portato dell’appartenenza al corpo sociale.

Tramite l’attribuzione ai cittadini di compiti, doveri e diritti, una somma di persone viene trasformata in  comunità,  legata da un  comune destino.

 

Certo, nelle società arcaiche la regolamentazione era semplice e compatta, perché elementari e circoscritti erano gli obiettivi che lo Stato si poneva e regolava attraverso la legge. Oggi la pluralità degli Ordinamenti e l’ampliarsi delle competenze e dei bisogni che il diritto è chiamato a regolare rendono molto più complessi e talora nebulosi gli obiettivi che il Sistema giuridico deve perseguire, il che spiega il ricorrente desiderio di un corpus normativo semplice e sintetico.

 

Fondamentalmente però si tratta di un equivoco semplificatorio, spesso strumentalmente coltivato da cacciatori di consenso a buon mercato, poiché i fattori generatori di complessità del corpo normativo traggono impulso proprio da un ampliamento della domanda di diritti e di regolazione espressa dalla base sociale. Sicché quest’ultima finisce con l’attivare una sorta di processo circolare, essendo in certo modo causa e vittima del lamentato fenomeno di complessità del diritto.

Questo sul piano astrattamente concettuale. Nel concreto, ad aggravare tale tendenza dell’Ordinamento giuridico all’impenetrabilità da parte degli operatori non professionali, concorrono disfunzionalità e carenze di segno diverso riconducibili sia  a farraginosità,  «asistematicità» e  scarsa stabilità dei testi normativi, sia alla tendenza ad attrarre nell’area della normazione legislativa anche gli aspetti più minuti del vivere sociale, quasi che tale strumento fosse più idoneo ad assicurare la legittimità dell’agire della Pubblica Amministrazione.

 

 

  1. L’Ordinamento italico è figlio del diritto romano ? Un luogo comune

da sfatare.

Venendo al diritto, così come si presenta nell’Ordinamento italico, va subito sfatato un equivoco. Siamo spesso inclini a considerare il diritto e la cultura giuridica del nostro Paese come promanazione, più o meno prossima, del diritto romano. Si tratta di convincimento ardito e consolatorio, quasi che la nostra legislazione possa vantarsi quei remoti fasti. Invero, oggi il sistema giuridico che può considerarsi più vicino al diritto romano sembra piuttosto quello anglosassone, fondato sul common law e sulla soluzione casistica delle controversie.

 

La connotazione estremamente analitico-descrittiva della nostra normazione, costantemente attenta alla salvaguardia del principio di legittimità è, anzi, per molti aspetti contrapposta all’impostazione sistematica della giurisprudenza romanistica, in forza della quale il giudice sulla base di principi generali, conosciuto e valutato il caso, elabora e fornisce esso stesso la regola di diritto, risolvendo così la controversia.

 

In tal senso va richiamata la nota massima di  Ulpiano (Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere  , Digesto, 1, 10, 1) ,  che,  enunciando

«regole  minime,  di  somma  generalità  del  diritto»,  fornisce  una  plastica  rappresentazione  di  come  il  diritto  romano  fosse  asciutto,  essenziale,  concreto  ed  aderente all’istanza

fondamentale di risolvere controversie applicando principi fondamentali ad un caso e fornendo una regola di soluzione della controversia.

 

Obiettivamente, un tale assunto non può dirsi assicurato nel nostro Ordinamento. Ciò in quanto - pur con tutte le avvertenze, i distinguo e le ponderazioni di maggior complessità cui si è fatto cenno - il nostro corpus normativo non solo si presenta di oscura e problematica comprensione per i cittadini, ma talora non consente ahimè nemmeno ad operatori esperti di prevedere, con apprezzabile attendibilità, l’esito delle eventuali controversie instaurate per tutelare diritti lesi. Ciò in quanto l’interpretazione della legge è, non di rado, ondivaga e troppo legata ad orientamenti e personali «sensibilità» interpretative dei giudici.

 

In effetti, il nostro corpo legislativo difetta, in larga parte, dei requisiti di chiarezza ed univocità interpretativa, nonché di stabilità ed essenzialità, requisiti che sono premessa  di  corretta conformazione del sistema e garanzia, per tutti i destinatari della legge. Esso poi, anche a causa degli anzidetti limiti, origina (e spesso fornisce alibi) pronunce intempestive e soluzioni interpretative incostanti.

 

Aggiungasi che una tale connotazione del Sistema agevola applicazioni delle norme erratiche e, a volte, addirittura fantasiose, aprendo il varco a non episodiche pronunce affette dall’insidioso tarlo del protagonismo, che è alla base di atteggiamenti creativi o interpretazione evolutive del giudice. Né può sottacersi che in diversi casi è dato riscontrare, nell’approccio alle controversie, una vocazione del giudice di taglio minimalista, sostanzialmente abdicativa, che enfatizza il profilo procedurale e formalistico, a detrimento della decisione nel merito della causa.

 

Profili di disfunzionalità questi che, comunque, nel processo civile si manifestano in misura assai meno pronunciata di quanto avvenga nel campo della giurisdizione penale, laddove approcci di tale segno possono acquisire valenza di natura drammatica, sul piano della garanzia dei diritti della persona.

 

  1. Parametri obiettivi  di  misurazione  della      qualità/validità         del sistema       giuridico      e giudiziario: la durata dei procedimenti     come indice di funzionalità della

In modo spesso pomposo e con argomentazioni per lo più ispirate a difesa preconcetta del proprio perimetro di competenze viene spesso eccepito che il nostro Sistema giudiziario punta alla qualità e che non sarebbe corretto ridurre la valutazione su tale materia a rappresentazioni numeriche e diagrammi.

 

E’ evidente la gracilità concettuale di tali posizioni, poiché della qualità non è dato esprimersi in dettaglio, mentre l’utilizzo di indici sintetici su fattori aventi diagnostico rappresenta l’unico strumento disponibile per valutare in modo omogeneo e comparabile la produttività,  funzionalità  e, financo, la  qualità dei singoli  Uffici giudiziari e del Sistema  giudiziario nel suo insieme. Dunque è, forse,  proprio quest’attitudine dello strumento a fornire una analisi discriminante delle performances dei diversi uffici a generare tanto diffusa ostilità in seno al corpo magistratuale. Tali chiavi diagnostico valutative denudano vizi e virtù delle diverse componenti del sistema, con una attitudine all’analisi granulare che potrebbe giungere sino al livello individuale, il che secondo taluni minerebbe l’indipendenza della Funzione.

 

Malgrado il tendenziale calo del contenzioso - in parte quale diretta risultante degli strumenti legislativi di dissuasione adottati (Contributo Unificato di giustizia ed inasprimento della casistica di condanna alle spese del soccombente ) e, per altra parte, sintomatica espressione della crisi economica attraversata dal sistema economico italico, nonché del tendenziale abbassamento della fiducia del cittadino per soluzioni giurisdizionali del contenzioso – i tempi di attesa per la decisione di controversie continuano a risultare patologicamente dilatati e tali da rappresentare autentico handicap competitivo per il Sistema Italia. La lentezza della giustizia civile è uno dei problemi strutturali italiani. Si sono però manifestati negli ultimi tempi modesti segni di miglioramento, il che induce a sperare.

 

Un recente studio sull’attrattività dell’Italia nel mondo, pubblicato lo scorso aprile dalla Fondazione Censis e dall’Osservatorio AIBE (Associazione Italiana Banche Estere), ha identificato nei patologici tempi della giustizia civile, una tra le cause fondamentali (accanto al carico normativo e burocratico ed alla carente efficacia dell’azione di governo) della scarsa attrattività del nostro Paese per gli investitori esteri. Molteplici - e di nocumento non agevolmente quantificabile - sono le conseguenze economiche di tale disfunzionalità del sistema giudiziario.

 

Val ben al riguardo citare, tra le tante analisi sul tema, uno studio del Cer Eures (2017), che stima in 2,5 punti di PIL annui il gravame originato dalla lentocrazia del sistema giudiziario. In altri termini, se la nostra giustizia civile avesse i tempi di quella tedesca si recupererebbero circa 40 miliardi di euro. Ma i benefici non si limiterebbero solo a prodotto interno, giacché si genererebbe anche : un aumento di circa 100 mila posti di lavoro; l’incremento di circa mille euro all’anno del reddito pro capite; un complessivo miglioramento del grado di fiducia di famiglie e imprese.

 

In sintesi, da decenni , si elaborano strategie di lotta all’evasione fiscale, ipotizzando recuperi di massa imponibile sottratta spesso tanto grandeggianti quanto fantasiosi, il che è certo commendevole e condivisibile. Sorprende però che non converga un’attenzione massiva e prioritaria su un siffatto fattore di criticità.

 

Il superamento o una decisa inversione di tendenza rispetto a tale fenomeno generebbe un beneficio concreto sul versante dell’economia e, segnatamente, della crescita di competitività dell’impianto produttivo italico. Epperò, malgrado si tratti di tema di cruciale rilievo e di non insuperabile complessità, i progressi censibili appaiono modesti. Ciò per un ventaglio di ragioni, non ultima fra le quali l’atteggiamento stesso degli operatori del diritto volto, per quel che è dato rilevare, più all’affermazione di principi talora astratti ed alla salvaguardia di prerogative di status che non all’acquisizione della consapevolezza della necessità di uscire dal guado e di assicurare finalmente ai cittadini ed al sistema economico produttivo una giustizia che, per dirsi tale, deve concretizzarsi, anzitutto, in pronunce rapide ed efficaci.

 

  1. Tempi necessari per la definizione di processi
6.1.  Efficienza della giustizia.

 

Secondo i dati CEPEJ nel 2016 la durata media di un processo era pari a 514 giorni in primo grado, 993 in Corte d’Appello e 1.442 in Corte di Cassazione.

 

La durata del primo grado di giudizio si è ridotta di 76 giorni dal 2012, quella del secondo grado di 275 giorni dal 2010, ma è aumentata di 211 giorni la durata del terzo grado. Inoltre, tra il 2014 e il 2016 si è invertita la tendenza al calo nella durata dei processi, con un aumento della durata sia in secondo sia, soprattutto, in terzo grado.

 

Né, come detto, vale a giustificazione di tale deficit di competitività del sistema, la considerazione, che la nostra giurisdizione sarebbe «qualitativamente superiore», perché a ben  vedere si tratta di un nonsenso: quel che conta davvero, al di là della pretesa eleganza di una sentenza, è l’attitudine ad intervenire in tempi fisiologici sulla controversia ed a dirimere, in modo logico e convincente, il caso esaminato.

 

Diversamente, lo strutturale sbilanciamento esistente nel processo a favore della parte più forte verrebbe, come di fatto malauguratamente avviene, accresciuto dalla lentezza della decisione stessa. Lentezza che si traduce in ulteriore vantaggio per le parti più forti o spregiudicate: una sentenza che non segue il processo di scorrimento naturale degli eventi interviene su equilibri esistenti solo sulla carta e, quindi, risulta spesso costosa ed inutile. Le cronache giudiziarie ridondano di esempi del genere. Così come di sentenze «fuori standard», sia per qualità delle decisioni, che per tempi di resa.

 

Non va qui ripresa perché  inutile,  data l’iterazione con cui viene affrontata e gli  scarsi risultati sin qui raggiunti,  la  vexata quaestio sui controlli sulla produttività dei giudici e sulla  loro responsabilità per pronunce manifestamente errate. Sta di fatto però che risultano inspiegabili i formidabili disallineamenti nella produttività censita tra diversi giudici e tra diversi tribunali, in presenza di una casistica trattata sostanzialmente analoga.

 

L’impressione è che, nello svolgimento della commendevole attività assicurata dall’assoluta maggioranza dei suoi componenti, l’Ordine magistratuale spesso si privi di strumenti fondamentali per l’organizzazione del proprio lavoro e il censimento e bilanciamento dei carichi di lavoro. E ciò sulla base della discutibile motivazione della preservazione dell’indipendenza del singolo giudice.

 

A dire il vero non sembra che controlli e rilevazioni di tal fatta e l’attribuzione di più incisivi poteri di organizzazione del lavoro ai Titolari degli Uffici Giudiziari costituiscano vulnus del principio di indipendenza, né pare accettabile che, si ripete, errori od omissioni manifeste nella decisione di controversie restino privi di qualsivoglia effettivo spazio di sanzione, con la labile  giustificazione  che, comunque, una pronuncia errata troverebbe  compensazione e riparazione  nella ricorribilità della sentenza.  Il sacrosanto principio di indipendenza, che è a tutela del bilanciamento dei poteri e dell’imparziale pronuncia del giudice, spesso in queste dimensioni e prospettive assume connotati odiosi, in quanto adombra vere aree di impunità a fronte di un mondo pubblico e privato in cui chiunque può esser chiamato a rispondere degli errori od omissioni commesse nell’esercizio della propria attività.

 

 

6.2.  Durata media procedimenti civili in Italia: 1,4 anni per il 1^ grado, 2,7 per l’appello e 4 per la Cassazione. Mediamente, oltre 8 anni per l’assolvimento dei diversi gradi di giudizio.

 

 

 

  1. Un confronto con le performances dei sistemi giudiziari

E’ anche utile e pertinente un confronto internazionali con la situazione esistente sul versante internazionale, circoscritto a Stati aventi sistemi giudiziari simili o compatibili con quello del nostro Paese.

 

A fronte dei 2.949 giorni (8 anni e 29 giorni) in Italia, nel 2016 i tempi medi di un procedimento civile che arrivava al terzo grado di giudizio erano meno della metà (1.216 giorni) in Francia, circa un terzo (976 giorni) in Spagna e circa un quarto (799 giorni) in Germania. Nella classifica dei paesi, l’Italia è ultima per i tempi di giudizio di ultima istanza, penultima dopo la Grecia per il secondo grado e terzultima  dopo Grecia e Bosnia Erzegovina per il primo grado.

 

Anche il rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale ci vede indietro nella classifica sul tempo richiesto per il recupero per via giudiziale di un credito commerciale, inclusivo sia dei tempi per ottenere un giudizio finale, sia di quelli necessari per la riscossione. I dati aggiornati al 2018 mostrano che in Italia occorrono 1.120 giorni contro i 582 della media dei paesi OCSE ad alto reddito.

 

Invero, su tale fronte miglioramento c’è  stato rispetto a 15 anni fa (nel 2003 erano necessari 1390 giorni per riscuotere un credito), ma i  progressi  sono lenti e non senza battute d’arresto (dal 2015 la  situazione è sostanzialmente rimasta immutata). Come da ultimo evidenziato (aprile 2018 ) dal Governatore della Banca d’Italia nel Convegno «Banche e Finanza dopo la crisi», in Italia occorrono  mediamente tre anni per risolvere una controversia in Tribunale e più di sette anni per chiudere una procedura fallimentare, mentre nei Paesi europei più virtuosi i tempi medi, per entrambe le procedure, sono inferiori ad un anno, il che ha pressoché raddoppiato la percentuale dei crediti deteriorati sul totale dei prestiti.

 

Quanto alle Procure, il confronto sui tempi di definizione dei procedimenti rispetto ai Paesi europei è persino più imbarazzate.

 

Dunque, alla posizione di assoluta centralità e rilievo attribuita al sistema giudiziario - tant’è che esso svolge funzione di chiusura dell’Ordinamento, senza il quale la norma vale solo come consiglio morale

- «non corrisponde una funzione altrettanto rilevante ed efficace». Non ha certo giovato al superamento di tale gap prestazionale l’esondazione dei magistrati in settori diversi da quello giurisdizionale, a partire dal campo della politica attiva . Questa  partecipazione  dei  magistrati  in Parlamento e in altre assemblee politiche , cosi come in organismi amministrazione  attiva,  viola il principio della  separazione di Montesquieu e crea incroci non virtuosi nell’atteggiamento dei giudizi, che spesso sono propensi ad assumere un ruolo di supplenza ed sconfinare nell’alveo della politica, ma meno inclini a farsi carico di ritardi e disfunzionalità .

 

Grave è che l’Ordine giudiziario spesso non ricerchi rimedi, bensì alibi a giustificazione di tale stato di fatto, non elabori proposte, non aumenti la produttività, non modifichi le catene di lavoro. La conferma della non inesorabilità dello stato della giustizia sta nei forti disallineamenti delle prestazione dei singoli magistrati e dei diversi uffici, tant’è che convivono nel Sistema posizioni di assoluta funzionalità ed efficienza, con fenomeni di lentezza che sconfina nell’infingardaggine e nel disordine. Organizzativo.

 

Da troppo tempo ogni proposta di cambiamento o diversa organizzazione si scontra con l’assioma dell’indipendenza che, però andrebbe correttamente intesa e non strumentalizzata, giacchè stabilire degli orari, fissare dei termini, assegnare un carico di lavoro in relazione a standard di produttività non sembra potersi considerare un vulnus al cennato principio . (S. Cassese, La Svolta, pag. 226 e succ.) .

 

G

 

 

 

 

7.1.    Durata media processi civili in Europa.

 

 

8.   Differenze nella durata dei processi a livello geografico.    Particolarmente disfunzionale risulta la durata dei processi nel  Sud del Paese, il che conferma le negative ricadute indotte dal carente funzionamento del sistema giudiziario sui processi di crescita e di sviluppo.

 

All’interno dell’Italia si evidenziano marcate differenze nella distribuzione geografica della lentezza di definizione dei processi : nel 2018 la durata media dei procedimenti considerati dal Ministero della Giustizia, riferentisi  prevalentemente al primo grado di giudizio, era di giorni:  610  al Sud,  407 al Centro; 270 giorni al Nord.

 

E’ superfluo sottolineare come tali differenze, ancora enormi malgrado i progressi registrati rispetto a quattro anni fa (nel periodo 2014-2018 la riduzione della durata media nel Mezzogiorno è stata del 24 per cento, mentre è rimasta sostanzialmente immutata la durata media nel resto del paese), siano ingiustificabili in quanto concorrono a perpetuare lo stato di penalizzazione in cui versa il Sud rispetto ad altre aree del Paese.

 

Ciò è ancor più grave ove si tenga conto del fatto che progressi su tale versante potrebbero attivare un volano virtuoso di sviluppo e colmare il deficit di legalità, che è tra le cause prime della strutturale sofferenza economico - sociale del Sud Italia.

 

Se anziché parlare continuamente di malaffare e corruzione, di territori controllati da organizzazioni malavitose si rendesse giustizia nelle controversie civili, e lo si facesse con efficacia e tempestività - utili  soprattutto a prosciugare il brodo di cultura in cui prosperano i germi della illegalità  ed a  fornire tangibile esempio di uno Stato presente e capace di far sentire il suo peso nella modellazione delle condotte e  delle colture residenti -  allora una parte non esigua delle cause di degrado della società civile verrebbe eradicata.

 

Ma un simile obiettivo non appare ancora a portata di mano, molto occorre lavorare per una meta che dovrebbe esser considerata, semplicemente, come l’affermarsi della pura normalità.

 

  1. Le cause di disfunzionalità del sistema giustizia «a monte delle

giurisdizione»

 

Richiamando le parole di Piero Calamandrei il processo è, esso stesso, anticipazione della pena. Ciò vale soprattutto nel diritto penale, laddove costituisce autentica sanzione anticipata, ma si ben si adatta anche agli altri rami della giurisdizione. Per tale motivo istanze fondamentali di civiltà giuridica dovrebbero spingere ad adottare ogni possibile rimedio per minimizzare e mitigare tale onere strutturale, accelerando per quanto possibile lo svolgimento dei processi.

 

Gli strumenti sin qui prevalentemente utilizzati per conseguire l’obiettivo dell’accelerazione si caratterizzano più per i fattori di disincentivo al processo (incrementando i costi di accesso alla giustizia, ampliando la sfera delle eccezioni di inammissibilità e appesantendo il gravame delle responsabilità in caso di reiezione della domanda) , che per la finalizzazione al miglioramento dell’efficienza e della celerità delle controversie.

 

Senza voler ridurre l’attività di giurisdizione ad una catena di montaggio, va segnalato che il portatore della domanda di giustizia è più interessato ad una giustizia rapida e sostanzialmente equanime, che ad estenuanti discettazioni e ponderazioni su argomenti che finiscono con il risultare puramente dilatori. Tale impostazione non va «intestata» solo a strategia del difensore ma, non di rado, va ricondotta ad evidente propensione o scelta del giudice al rinvio della decisione della causa.

 

Un giustizia più rapida, che sia capace di fronteggiare situazioni e conflitti e non già di prendere notarilmente atto di equilibri già evoluti  verso altre dimensioni, come spesso avviene sul fronte della gestione delle crisi di impesa. Emblematico in tal senso è il caso delle procedure concorsuali, laddove di norma si assiste alla  pura presa d’atto di un fallimento ed alla prevalente destinazione delle risorse societarie alla remunerazione dei liquidatori e dei loro consulenti, piuttosto che alla soddisfazione dei creditori.

Come in ogni fenomeno complesso avente un rilevo sistemico le dinamiche della patologia disfunzionale sono multifattoriali.

 

Per limitarci a quelle primarie, sembra che, a monte delle giurisdizione, esse vadano individuate : a) nella scarsa qualità e nella frammentarietà dei testi legislativi, talora redatti in modo ambiguo e fumoso, coltivando obiettivi diversi e tali da non rendere sempre chiaramente leggibile la ratio legis ; b) nell’eccessiva mutevolezza ed instabilità del quadro normativo; nella iperfetazione dell’attività legislativa, sconfinante in aree meglio regolabili in regime in regime ammnistrativo o tecnico.

 

  • Cause riconducibili alla funzione giurisdizionale

Con riferimento alla funzione giurisdizionale, parte el problema risiede nella vocazione del giudice ad affermare la propria autonomia ed originalità, attraverso interpretazioni che, inopinatamente, si discostano dai sentieri della giurisprudenza prevalente, nella consapevolezza di non dover comunque rispondere di errori o, addirittura, stravaganze interpretative.

 

In sintesi tutti gli attori del processo – e il giudice è parte esso stesso di tale rito di giustizia – dovrebbero  rispondere dei propri atti. e, soprattutto, esser tenuti ad assicurare, in termini di decisioni rese, output apprezzabili per qualità (cosa al momento non censibile e di problematica ponderazione) quantità e tempestività.

 

Dunque, vengano pure assunti strumenti di disincentivo del contenzioso, si punti sulle strumenti di superamento alternativo delle liti, si investa sul radicamento nel sistema delle relazioni economiche su una cultura del confronto, fondata sulla consapevolezza che un accordo oneroso o un a transazione saranno comunque economicamente più convenienti dell’estenuate percorso del processo.

 

Ma una volta che le vicende approdano alla sede contenziosa, il Sistema giudiziario andrà dotato di mezzi e risorse per affrontare con incisività, tempestività ed efficacia i casi sottoposti. Anche perché: una decisione drastica e tempestiva anche «educativa» per la platea dei cittadini, potenziali fruitori dei giustizia e, dunque, potrà attivare processi virtuosi di disincentivo per la litigiosità pretestuosa; l’investimento su tale versante rivela potenzialità fruttuose formidabili sul piano della crescita della competitività del Paese.

 

La parte più rilevante per uscire dal guado è richiesta agli attori del processo. Ai giudici ed agli avvocati, con graduazioni di intensità diverse e correlate ai rispettivi poteri e competenze.

 

Anziché preoccuparsi delle prerogative del ruolo e della salvaguardia di un’autonomia che è talora al servizio del desiderio di insindacabilità, occorre farsi carico con ponderazione e responsabilità di fronteggiare le quotidiane istanze di giustizia, con un impegno diuturno che rifugge dalle luci della ribalta, ma che si nutre di autonomia di giudizio e di capacità di affrontare questioni, poteri e problemi senza approcci reverenziali ma, in pari tempo, senza pregiudiziali o condizionamenti ideologici, propensioni di appartenenza o vocazioni protagonistiche.

 

Un giudice deve non solo esser ma anche apparire indipendente, quindi ben vengano barriere ed interdizioni alla discesa in campo politico, ma soprattutto si affermi il principio che, una volta compiuta la scelta, non è dato il percorso inverso. Perché per il cittadino è difficile riguardare un giudice come imparziale, se sino al giorno prima aveva, legittimamente, svolto funzioni di parte o di una determinata parte o fazione politica.

 

Proprio in quanto del depositari dello ius imperii dello Stato fu previsto, dai Costituenti, per i magistrati il divieto di iscrizione ai partiti.

 

La vera autonomia della giurisdizione riposa sulla terzeità del giudice, sul suo non esser parte, sull’indipendenza delle sue decisioni poste al riparo da condizionamenti o intromissioni di poteri o influenze di diverso segno. Questa è l’unica motivazione costituzionale a supporto dell’indipendenza dell’Ordine giudiziario. Al di fuori di essa, il sacrosanto postulato dell’autonomia, in più casi oggetto di strumentale enfatizzazione, diviene privo di fondamento.

 

In conclusione - e per rispondere al quesito se l’Italia sia la «culla del diritto», può affermarsi, in coscienza, affermarsi che il Diritto nel nostro Ordinamento sia effettivamente bisognevole di molte ed assidue cure , che valgano ad assicurarne una crescita rapida, armoniosa ed equilibrata.